Da un interessante dialogo su Il Tascabile, il rapporto tra comunicazione, scienza e politica durante la Pandemia
“Come mai molte persone fraintendono il disaccordo scientifico e l’incertezza della ricerca scientifica? Personalmente attribuisco questo problema all’educazione scientifica a scuola, che si concentra sui prodotti della scoperta scientifica piuttosto che sui processi della scoperta scientifica. Ci viene insegnato il contenuto della scienza, e quel contenuto è limitato ai fatti accertati. Veniamo esaminati sulla nostra conoscenza di tali fatti e sulla nostra capacità di manipolarli, e ragionare con essi. Da un certo punto di vista questo è giusto, dal momento che ci sono fatti scientifici consolidati che è necessario capire. Ma è un quadro incompleto di cosa sia la scienza.”
Sono le parole di Alexander Bird, professore di filosofia della medicina al King’s College di Londra, all’interno di un lungo ed interessante dialogo fatto online per Il Tascabile sul tema “Comunicare la scienza in tempi di crisi” .
Questo post è in buona sostanza una mia personale riflessione successiva alla lettura di questo illuminante dialogo online.
Parto proprio dalla frase di apertura, a mio avviso folgorante.
Sì è vero, quello che abbiamo studiato a scuola e per il quale molti come me sono rimasti affascinati e devoti è proprio l’idea di scienza come risultato, come conquista dell’umanità in svariati campi come la medicina, la biologia, la tecnologia, la fisica, ecc… Il nostro sguardo sulla scienza è stato sempre il frutto dell’analisi e apprezzamento del prodotto della scoperta scientifica. Fino ad oggi.
La Pandemia da coronavirus ha per la prima volta orientato i riflettori dell’opinione pubblica su cosa invece la scienza sia prima che diventi un risultato, un prodotto, una verità inconfutabile.
Una lunga strada lastricata di errori, tentativi, formule, ripensamenti, dibattiti accesi e litigi da parte degli scienziati. E’ il processo scientifico in cui una comunità ampia di scienziati si confronta per arrivare con fatica e tempo, un bel giorno, ad un risultato che ci porta ad uno step successivo dell’evoluzione umana.
E qui passiamo al centro della questione, cioè come comunicare la scienza in un momento di crisi come può essere una pandemia, come approcciarsi per spiegare ai lettori come funziona il processo scientifico e non scatenare il panico nella comunità mondiale.
Ecco quindi che entra in scena il protagonista assoluto della Pandemia: il panico.
In un momento in cui il modello di business mondiale su cui si è sostenuto per secoli il giornalismo crolla giorno dopo giorno inesorabilmente sotto i propri piedi, cosa può accadere di meglio per vendere e ridare interesse al proprio prodotto? Il panico appunto.
Pensateci bene, una pandemia mondiale incontrollabile è il miglior ingrediente per creare un interesse costante ed ansiogeno in tutta la popolazione mondiale, anche tra quelli che in genere seguono poco le notizie.
Sia pure con approcci differenti, la stampa mondiale si è fatta trovare impreparata nel raccontare la pandemia anche se con il passare dei giorni e poi dei mesi ha iniziato a cambiare approccio. Era ed è un evento nuovo anche per i media ed abbiamo letto per settimane autentiche castronerie se non l’inseguimento alla ricerca X e alla sperimentazione Y.
Una differenza sostanziale l’ho personalmente avvertita seguendo contemporaneamente i giornali e tv inglesi (perché vivo in Inghilterra) e quelli italiani.
Sui più importanti media inglesi, tra tutti la celebre BBC, ho notato che esiste proprio il giornalista che si occupa di scienze o salute. Si suppone sia specializzato nel curare quella determinata materia. Se non è proprio un esperto, si tratta di un professionista quotidianamente a contatto con fonti autorevoli di quel settore.
Questo riduce (anche se non elimina del tutto) la possibilità che dica cose che non conosce e che sbagli approccio nel trattare la materia.
Tutta un’altra musica in Italia dove non solo ad occuparsi di scienza o virus è uno qualsiasi dei redattori, ma addirittura si offre platea e voce sulla questione virus a chiunque. Giornalisti, soubrette, gli stessi scienziati che magari sono fisici ma non sanno di virus, oppure virologi che parlano di epidemie quando dovrebbero farlo gli epidemiologi e viceversa.
Nel modello giornalistico britannico, ma oserei dire anche americano, quindi il classico modello giornalistico anglosassone, chi parla è uno che sa. Alla BBC si da voce solo agli esperti, di qualsiasi cosa si tratti. Il politico interviene solo su fatti politici e su quello viene intervistato.
Giorgio Sestili fisico, coordinatore e fondatore di “Coronavirus: Dati e Analisi scientifiche” pone l’accento su un paio di elementi (la mole di informazioni e i dati) che hanno reso e rendono tuttora difficile la comunicazione:
“Questa marea di informazioni è composta da una piccola parte di ricerche eccellenti, una buona parte di pubblicazioni che generano solo rumore di fondo, e una grandissima parte che non supera neanche una fase di review. È una rincorsa che ha reso il nostro lavoro ancora più complicato, dato che è necessario scegliere attentamente le fonti e capire cosa, di ciò che viene pubblicato dalla comunità scientifica, meriti un ragionamento pubblico.
Il secondo ostacolo è quello relativo ai dati: ogni giorno ci troviamo di fronte a dati che vanno prima analizzati e poi comunicati, e ci siamo resi conto, giorno dopo giorno, di aver a che fare con dati spesso completamente falsati: numeri che si discostano molto dalla reale fotografia della situazione”.
I numeri sono proprio quelli che generalmente fanno andare in confusione un pubblico non abituato a ragionare in questo modo, io tra questi. Che senso ha, ad esempio, comunicare i dati giornalieri relativi ai nuovi contagi? Cosa ce ne facciamo? Sono il reale termometro della situazione? Ed allora quali numeri comunicare e come? I decessi? Le terapie intensive?
“Chi fa comunicazione scientifica non deve vendere certezze. Dove non ci sono certezze è molto importante che questo stato di incertezza sia comunicato, ammettendo apertamente: questo la comunità scientifica ancora non lo sa” continua Sestili.
Insomma è indubbio che la comunicazione scientifica, soprattuto in un momento di crisi quando la gente vuole avere certezze, si trovi davanti a grandi ostacoli come afferma Roberta Villa, giornalista scientifica specializzata in medicina e biologia:
“La criticità maggiore è l’incertezza, soprattutto in un mondo — come quello della cultura italiana — in cui negli ultimi anni è circolata un’idea della scienza come qualcosa di granitico, capace di asserire verità con la stessa certezza che 2+2=4. Questo è un messaggio controproducente, che offre una descrizione erronea di una disciplina che si nutre di dubbi e di domande. È stato difficile per chi comunica la scienza, ma probabilmente anche per il pubblico, affrontare una situazione dove domina l’incertezza e, come si diceva, in continuo divenire..”
In questo quadro in cui i protagonisti sono la comunicazione e la scienza, non bisogna dimenticare il vertice del triangolo, cioè la politica che è quella che poi deve decidere delle nostre vite, della nostra libertà e soprattutto porre attenzione sul grande problema economico che sta devastando tutte le Nazioni del mondo.
Fabio Gironi, filosofo, giornalista e curatore del dialogo su Il Tascabile arriva dritto al punto:
“Questa crisi ha mostrato con particolare urgenza i limiti della comunicazione che ha luogo tra la sfera politica e la sfera scientifica. La politica vuole indicazioni precise per prendere misure da attuare nell’immediato, la scienza fornisce risposte provvisorie e trend statistici. Questo mi sembra dipenda anche da una profonda differenza nella concezione del tempo: lo scienziato costruisce le proprie ipotesi sulla base di secoli di conoscenza pregressa, è consapevole del lento e cauto progresso della ricerca, e guarda al futuro della propria disciplina. Il politico ha un limite temporale preciso (il mandato) che è molto più breve, e quindi i due registri decisionali si vengono a scontrare”.
Gli intervistati convengono sul fatto che la comunicazione scientifica debba trovare come obiettivo la comprensione dei fatti scientifici da parte della opinione pubblica più che dai politici.
E una delle cose che questa pandemia mondiale ha portato è stato un maggiore interesse verso la scienza, i suoi tempi e le sue incertezze.
D’altronde quello che ci sta accompagnando e forse lo farà ancora a lungo, è l’incertezza, quell’incapacità di guardare al domani, di fare programmi, su cui la società occidentale si è sorretta fino ad ora. Ma da questo ne deriverebbe tutto un altro e ancora più complesso e profondo discorso.