Quando e come usciremo da questo incubo?
E’ l’interrogativo che ci poniamo ormai da giorni, da quando abbiamo superato la prima fase che in Italia è stata quella del #andratuttobene e dalla condivisione sui social media di immagini e video di pizze e pane fatti in casa. Per me è stata la fase scandita dall’onnipresente slogan: “Stay at home, save lives and protect NHS” (rimani a casa, salva vite e proteggi il sistema sanitario nazionale).
Scrivo mentre in Inghilterra, dove vivo, siamo al trentottesimo giorno di quarantena.
Ne scrivo non perché abbia da aggiungere dettagli più originali rispetto alle qualificate riflessioni di filosofi, scrittori, creativi di tutto il mondo. Lo faccio per i posteri, anzi per me stesso principalmente, affinché possa rileggere ed analizzare tra qualche anno e con la giusta distanza emotiva, cosa ci sta accadendo in queste settimane (mesi?anni?).
Sugli interrogativi iniziali nessuno su questa Terra al momento è in grado di svelare cosa sarà del nostro domani, nonostante da settimane i giornali siano interamente confezionati con le più strampalate visioni ed ipotesi della nostra vita post pandemia.
Allora proviamo ad analizzare e iniziamo da quello che certamente non sarà.
La prima certezza è che non ne usciremo in una data specifica. Sarà un processo lungo, lento e faticoso di ripresa delle attività e delle nostre vite. Come quando si abbatte una tempesta e lascia i segni, i detriti e le voragini, ci vorrà tempo per incollare i cocci dei vasi rotti, imbiancare le finestre, spazzare la polvere e sistemare i tetti. Quando qualcosa si rompe, si incrina, ci scuote, nulla è come prima.
Qualcuno ci avrà rimesso le vite di persone care, altri non avranno vissuto momenti importanti, penso ad esempio a bambini che dovevano fare gli esami di scuola media. Alcune relazioni saranno andate in frantumi, altre si saranno esasperate, alcune amicizie si saranno rinsaldate. Avremo letto più libri e visto più serie tv, magari avremo fatto un corso online o semplicemente avremo pensato di più ai noi stessi.
Un’altra cosa che ci rimarrà di questi giorni è una sorta di momentaneo abbattimento delle differenze tra le nostre vite e quelle degli altri, comprese le celebrità. In realtà le cose non stanno proprio così, chi è povero ne uscirà più povero e devastato da questa tragedia, ma almeno nell’immaginario delle giornate trascorse tra le mura di casa, le nostre non sembrano differire poi molto da quelle di personaggi che ci ispirano con le loro vite patinate in luoghi da sogno, sulle passerelle, sui campi di calcio e raccontate sulle storie di Instagram.
Sono tutti a casa, chi in 50 metri quadrati, chi con villa in piscina o ampio giardino, ma siamo tutti uguali, nessuno può fare cose così diverse dal cucinare, video chiamare su Zoom o fare esercizi fisici sul tappetino. A proposito di esercizi, mi ritengo assai fortunato perché in Gran Bretagna siamo stati autorizzati ad uscire per fare attività fisica e quindi non ho mai rinunciato a fare lunghe passeggiate lungo il canale o nel verdissimo ed immenso parco. Una salvezza per la mia sanità mentale.
Le differenze tra Italia ed Inghilterra
Esiste un’altra grande differenza tra vivere il “lockdown” qui rispetto all’Italia. Mentre scrivo, la Gran Bretagna è al terzo posto per l’infelice primato del numero dei morti subito dopo USA ed Italia. Tuttavia, come giornalmente mi accade di verificare, in tutte le situazioni di vita vissuta rispetto all’Italia, sottolineo l’assenza totale di quell’ansia insopportabile e schizofrenica che governa ogni cosa in Italia. Autocertificazioni per dichiarare dove si sta andando, l’interpretazione sul significato di congiunto (il fidanzato? l’amico? Il trombamico?), le forze dell’ordine che in diretta tv e con il sottofondo della Cavalcata delle Valkirie inseguono sulla spiaggia l’uomo reo di aver violato la quarantena nel Paese e poi i singoli governatori regionali che in autonomia decidono (e non potrebbero) della libertà delle persone. Questo eterno caos del vivere quotidiano e della disorganizzazione, in comunità, in mezzo agli altri, sono una prerogativa quasi unica dell’Italia. In Inghilterra è tutto chiuso, sono tutti a casa e non c’è alcun rumore di fondo.
Chi contribuisce e non poco a creare questo fastidioso rumore di fondo sono ovviamente le Tv e i giornali. Ed anche qui il divario UK ed Italia si fa profondo.
Il governo britannico non è immune da gravi colpe, il primo ministro Boris Johnson è stato accusato da un giornale conservatore come The Times di aver snobbato il Coronavirus per settimane, andando addirittura in vacanza ed assentandosi ai primi sei incontri dedicati al problema. Ma giornali e TV non lasciano rumore di fondo. C’è l’informazione, i numeri, la polemica ma è tutto composto, tutto al posto giusto. In Tv chi parla del virus è un tecnico, un medico, scienziato, non chiunque ed ovunque. Mi ha colpito che sulla BBC a fare le domande sul virus è un “giornalista scientifico” non uno qualunque.
Ecco, forse questo virus riporterà in auge il desiderio di autorevolezza. Probabilmente avremo più voglia in futuro di informazione più qualificata, di sapere tutto ciò che c’è da sapere ma da chi sa, da chi è qualificato e non da chiunque. L’eccessiva semplificazione delle cose, le risposte facili a questioni assai più complesse, ci hanno portato al ritorno crescente di nazionalismi e populismi.
Spero che qualcuno, in questa condizione di emergenza, si sia reso conto che occorre una classe dirigente preparata, che guardi ad un orizzonte temporale più lungo di domani.
Mentre scrivo, ascolto il Presidente del Consiglio Conte in Parlamento affermare che in queste settimane è salita la considerazione italiana all’estero. Ma è esattamente il contrario. All’estero hanno plaudito al senso di dovere e dedizione degli operatori ospedalieri e alla gente che è rimasta a casa ma l’esempio preso dall’Italia è stato essenzialmente di non fare come ha fatto l’Italia come ha descritto chiaramente il New York Times.
Siamo ancora nel pieno della pandemia, ovunque nel mondo, sebbene si parli di fase due. Non sappiamo come ne usciremo ma forse è già possibile pensare ad una nuova consapevolezza che emergerà dopo questa tragedia.
Abbiamo imparato che siamo fragili, che non siamo invincibili, che siamo interconnessi ovunque nel mondo e che ne usciremo tutti insieme o non ne usciremo. Abbiamo capito che, nonostante la tecnologia ci abbia fatto fare passi da giganti nelle nostre vite, un virus ha messo KO l’intera umanità in modo semplicissimo. Abbiamo scoperto che quello che ci manca di più nelle nostre vite è quello che facevamo ogni giorno con monotonia, prendere un caffè al bar, schiacciarci nella metropolitana, ingorgarci nel traffico. Qualcuno metterà in discussione il mondo in cui viveva prima e magari scoprirà che forse lavorare da casa è possibile e migliore, altri ripenseranno la vita nella grandi città (le più colpite dal virus) rispetto alla vita circondati dalla natura.
Storicamente da grandi crisi sono nate grandi ripartenze.
Magari porteremo il ricordo, le sensazioni ma torneremo ad essere sempre gli stessi, non cambieremo. O magari domani scopriremo un’umanità più solidale, più attenta a valori, persone, luoghi. Vedremo, domani è ancora lontano.